LA REVOCA DEL PORTO D'ARMI NON E' SUFFICIENTE A GIUSTIFICARE IL LICENZIAMENTO DI UNA GUARDIA GIURATA

Se l’azienda non dimostra l’impossibilità di impiegare il lavoratore con altre mansioni (Cassazione Sezione Lavoro n. 13986 del 24 ottobre 2000, Pres. Spanò, Rel. Celentano).

G.S., dipendente della S.r.l. Italpol Inchieste Speciali con mansioni di guardia giurata, ha trascorso le ferie annuali del 1991 lavorando in un condominio di Ostia, dove ha svolto attività di vigilanza e di portierato.

In seguito a ciò egli è stato raggiunto da due provvedimenti amministrativi che hanno disposto la revoca della nomina a guardia giurata e il ritiro del porto d’armi per esercizio abusivo dell’attività di guardia giurata. La datrice di lavoro lo ha licenziato con duplice motivazione: in primo luogo per inadempienza, ravvisata nello scorretto uso del periodo feriale, in quanto il lavoratore non lo aveva destinato al recupero delle energie psico-fisiche, nonché nello svolgimento di attività concorrenziale con quella della Italpol; in via subordinata per impossibilità di utilizzare la sua prestazione lavorativa a causa delle revoca delle nomina guardia giurata e del ritiro del porto d’armi.
Il lavoratore ha impugnato il licenziamento davanti al Pretore di Roma, che ha escluso sia l’inadempienza
che l’impossibilità di una sua utilizzazione e pertanto ha accolto la domanda, disponendo la reintegrazione di G.S. nel posto di lavoro e condannando l’azienda al risarcimento del danno.

Questa decisione è stata confermata, in grado di appello, dal Tribunale di Roma, che ha escluso che l’attività svolta dal lavoratore durante le ferie impedisse il recupero delle energie, in quanto ha accertato, tra l’altro, che egli si avvaleva della collaborazione di altre persone.

Inoltre il Tribunale ha ritenuto che S.G. non abbia svolto attività concorrenziale con l’Italpol in quanto, durante il lavoro, costituito in prevalenza da mansioni di portierato, era disarmato e privo di segni distintivi. Infine il giudice di appello ha escluso la configurabilità di un giustificato motivo oggettivo di licenziamento, in quanto l’azienda non ha dato la prova di non potere utilizzare il lavoratore con mansioni diverse da quelle di guardia giurata.

La Suprema Corte (Sezione Lavoro n. 13986 del 24 ottobre 2000, Pres. Spanò, Rel. Celentano), ha rigettato il ricorso dell’azienda, in quanto ha ritenuto che il Tribunale abbia adeguatamente motivato la sua decisione. Per quanto concerne in particolare la ritenuta inconfigurabilità di un giustificato motivo oggettivo di licenziamento per l’impossibilità della prestazione, la Corte ha osservato che le norme del codice civile in materia di impossibilità (articoli 1463 e 1464) devono essere coordinate con la legge 15 luglio 1966 n. 604 secondo cui il recesso del datore di lavoro dal rapporto a tempo indeterminato può avvenire solo per giusta causa o giustificato motivo.

Nel caso di licenziamento di un lavoratore addetto a mansioni di guardia giurata per perdita del titolo abilitante a tale attività – ha osservato la Corte - occorre pertanto che il datore di lavoro dimostri o che la prestazione è divenuta totalmente impossibile – occupando egli, nella fattispecie esaminata, solo lavoratori addetti all’attività di guardia particolare giurata – oppure, ove occupi anche personale svolgente mansioni diverse, non richiedenti alcun titolo di polizia, che egli non abbia un “interesse apprezzabile” alla prosecuzione del rapporto; questo “apprezzamento” va interpretato, ai sensi dell’art. 3 della legge n. 604 del 1966, alla stregua delle “ragioni inerenti all’attività produttiva, all’organizzazione del lavoro e al regolare funzionamento di essa”. Di conseguenza – ha affermato la Corte - nel secondo caso, il datore di lavoro deve dimostrare di non poter impiegare il lavoratore in altre mansioni non richiedenti quel titolo revocato dall’autorità amministrativa. Il problema della rilevanza o meno di una “colpa” del lavoratore in relazione alla emanazione del provvedimento amministrativo di revoca del titolo, agli effetti della sussistenza o meno di un obbligo di repechage – ha aggiunto la Corte - va risolto in base a quella che è stata la motivazione del licenziamento (e la contestazione dei fatti, così come accertata dal giudice di merito); se è stato addotto il giustificato motivo oggettivo, costituito dal factum principis, allora diviene irrilevante la condotta (colpevole) del lavoratore che abbia determinato quel provvedimento.

Diverso – ha osservato la Cassazione - è il caso in cui il licenziamento si fondi, più che sulle conseguenze del comportamento del lavoratore (il provvedimento di revoca), sul comportamento stesso, di modo che il motivo di recesso è costituito in realtà da un giustificato motivo soggettivo, rientrante nella prima parte dell’art. 3 della legge n. 604 del 1966: “notevole inadempimento degli obblighi contrattuali del prestatore di lavoro”. E’ evidente che in questo caso, una volta accertato dal giudice del merito l’inadempimento posto alla base della revoca del titolo di polizia, il datore di lavoro non è tenuto a rinvenire nell’ambito dell’azienda, per il lavoratore colpevole, un posto di lavoro con mutamento di mansioni. Nel caso in esame - ha rilevato la Corte - il Tribunale di Roma ha escluso la sussistenza di un notevole inadempimento agli obblighi contrattuali da parte di S.G., ed ha quindi esaminato quello che era, come ammette la stessa società, un subordinato motivo di recesso, fondato esclusivamente sul fatto oggettivo della revoca del titolo di polizia, e quindi integrante un giustificato motivo oggettivo di licenziamento.