CONTRO LA VIOLENZA SULLE DONNE

Viterbo -

Oggi è la giornata internazionale della violenza contro le donne. Non della violenza. La violenza contro le donne in quanto donne. Dicono che la differenza sia proprio questa.

 

Tempo fa ho visto una serie tv in cui una detective dava la caccia a uno spietato killer seriale di donne. Tutte brune, giovani, di successo, belle e soprattutto indipendenti. Il killer era anche un premuroso marito, padre e uno psicologo. Gli ingredienti sono quelli giusti per il nuovo stereotipo dell’uomo che uccide: il male si nasconde anche nel più comune e apparentemente virtuoso degli individui. Più della storia in sé una frase mi ha colpito e la ricordo ancora, la disse la detective al suo superiore: “Uomini e donne hanno paure diverse. Gli uomini temono che le donne li deridano. Le donne che gli uomini le uccidano”.

 

Queste parole, su cui più avanti ho riflettuto, credo rispondano almeno in parte a chi si chiede il perché di una giornata contro la violenza sulle donne e non sulla violenza in sé.

 

La violenza, se la intendiamo come rabbia, aggressività, prevaricazione, può esprimersi in molti modi, sottili e subdoli spesso, quando prende le forme del ricatto, della svalutazione e della denigrazione continui e non è appannaggio esclusivo degli uomini. Anzi.

 

Ma dobbiamo necessariamente fare una distinzione e iniziare con il chiarirci che il fenomeno è davvero complesso e ci obbliga a non irrigidirci in una posizione, ma provare ad ampliare la nostra prospettiva.

 

Ci sono relazioni che sono o diventano difficili, che portano litigi, recriminazioni e ricatti, guerre in tribunale per la separazione, figli lasciati in balia di quel mare in tempesta che diventa un rapporto quando finisce ma non sappiamo dircelo e scuotiamo le onde pur di non sentire il vuoto dell’assenza.

 

 

Il dolore c’è, le ferite pure. Alcune si rimargineranno, altre saranno là a raccontarci ciò che è stato con le loro cicatrici. Lo tsunami che precede la fine è devastante ma ci lascia vivi. Sta a noi naufraghi rialzarci e pian piano ricostruirci.

 

E poi ci sono le relazioni pericolose. Quelle per cui si può morire.

Scriveva Freud in “Il disagio della civiltà”, nel lontano 1929: “L’uomo non è una creatura mansueta, bisognosa d’amore, capace al massimo di difendersi quando è attaccata; è vero invece che occorre attribuire al suo corredo pulsionale anche una buona dose di aggressività. Ne segue che egli vede nel prossimo non solo un eventuale soccorritore o oggetto sessuale, ma anche un oggetto su cui può magari sfogare la propria aggressività, sfruttarne la forza lavorativa senza ricompensarla, abusarne sessualmente senza il suo consenso, umiliarlo, farlo soffrire, torturarlo e ucciderlo. Homo homini lupus: chi ha il coraggio di contestare questa affermazione dopo tutte le esperienze della vita e della storia?”

 

Difficile contestarlo a quasi cento anni di distanza. Eppure l’uomo non è solo questo e ogni giorno dimostra anche il contrario. Da dove nasce quindi la pericolosità dell’uomo verso la donna? Dove il dominio e la violenza?

Scrive un’altra famosa psicoanalista che il dominio nasce là dove si nega la dipendenza (J. Benjamin, 1988).

 

Facciamo un passo indietro. Della dipendenza tutti noi facciamo esperienza sin dalla nascita; il bambino e la bambina sono infatti del tutto dipendenti dalle cure e dall’affetto materno (e paterno). Sono in balia e allo stesso tempo sperimentano un senso di onnipotenza nell’essere al centro dell’attenzione del caregiver (cioè di chi si prende cura, madre o padre), non riconoscendolo come individuo separato ma come estensione di sé. Col tempo impareranno che questa estensione non esiste e che il caregiver sceglie in modo autonomo di prendersi cura. È a questo punto che il bambino e la bambina fanno esperienza della dipendenza e insieme ad essa del riconoscimento.

 

Riconoscono la madre (o il padre) e sono da essi riconosciuti come esseri separati e dotati di una propria peculiare individualità. È il riconoscimento reciproco che apre la strada all’intersoggettività, alla reciprocità e quindi alla possibilità di sperimentare quella sana dipendenza che apre la strada all’autonomia. Per poter esistere per se stessi si deve esistere per qualcun atro. Ho bisogno di uno specchio per potermi vedere, che mi rimandi l’immagine viva del mio essere separato e di scoprire poi che aldilà dello specchio c’è l’altr* da me. Ed è qui che avviene un passaggio delicato: “nel riconoscimento reciproco l’individuo accetta il presupposto che gli altri siano separati, ma ciononostante condividano sentimenti e intenzioni simili. Esso viene compensato per la sua perdita di sovranità dal piacere di condividere, dalla comunione con un altro soggetto” (J. Benjamin, 1988). Non accettare la propria dipendenza da qualcuno che non sono in grado di controllare apre la strada al controllo e al dominio dell’altr*; costringo l’altr* a riconoscermi senza riconoscerl* a mia volta.

 

L’uomo violento, che picchia, umilia, perseguita e infine uccide, non è stato capace di fare questo passaggio, di accettare la propria dipendenza dalla partner nella forma di una relazione fondata sulla reciprocità, in cui solo se si riconosce l’altra separata da sé e dotata di vita autonoma si può lasciarla libera di scegliere. Anche di andarsene, di separarsi e di permettere a se stessi di lasciar andare il controllo su di lei, accettare di perderlo.

 

La nostra è una società orientata al raggiungimento degli obiettivi e al successo, all’eccellenza quale unica possibilità di riuscita. Solo i migliori arriveranno alla meta. Questo potrebbe essere lo slogan.

 

È la società dell’individualismo esasperato da una connessione continua che là dove vuole facilitare relazioni, crea invece sciami di voci monadi e solitudini. È la società della competizione, dentro e fuori le mura di una casa ormai poco sicura. Colpisce come il confine tra senso di onnipotenza e impotenza sia tanto labile. Le relazioni tra uomini e donne rispecchiano il mondo che le circonda e le definisce e le aspettative spesso offuscano e a volte impediscono un reale riconoscimento dell’altr*.

 

Senso di onnipotenza e impotenza sono le facce di una stessa medaglia, il controllo. Uomini di successo e uomini dilaniati dal fallimento esasperano le loro idealizzazioni e ferite narcisistiche nella relazione con la propria donna, provando a trovare in lei uno specchio che li rifletta, piuttosto che un essere umano che li riconosca. Così accettare di perdere accettando la fine del rapporto diventa impossibile.

 

Spesso nel tentativo di comprendere un fenomeno tanto complesso si cerca di trovare un colpevole: la società, una storia di vita difficile, genitori tremendi o assenti, l’incapacità di amare o di farlo solo in modo “malato”, il machismo, un femminile stereotipato e svalutato. Probabilmente questi sono molti degli ingredienti alla base della piramide che porta alla violenza di genere. Gli interventi per contrastarla vanno sempre più nella direzione di un lavoro attento sugli uomini maltrattanti e il loro vissuto, nel tentativo di favorire un elaborazione della propria esperienza e del proprio comportamento, promuovendo per tutti un modello nuovo che contrasti stereotipi e pregiudizi di genere e faciliti relazioni affettive consapevoli ed emotivamente sane. È un modello di intervento nuovo che si aggiunge e non esclude quello già da tanto tempo attivo per le donne, non più viste solo come vittime di un uomo abusante, ma artefici della propria vita e in lotta contro un modello socio-culturale schiacciante e ingabbiante. Uomini e donne in lotta non tra di loro ma per uscire dal labirinto del dominio.

 

Questo il cupo scenario delle relazioni eterosessuali minate dalla violenza. Quale per le altre? Le relazioni omosessuali sono violente? Sì, e non solo quelle tra uomini. Anche le donne sono violente tra loro, fisicamente e psicologicamente, ma se ne parla poco. Sembra che l’eteronormatività includa anche l’esclusiva sulla violenza. Aggiungere stigma allo stigma forse sarebbe troppo. Ma le denunce alle associazioni Lgbt ci sono e il fenomeno è reale.

Forse allora urge un’ulteriore riflessione che non neghi la precedente ma la ampli: la violenza può riguardare la relazione affettiva tra due persone che sostengono di amarsi e si imprigionano invece in un giogo di potere e controllo e, forse, più che il genere a fare la differenza è la modalità con la quale la si agisce. Forse quella maschile è più pericolosa perché mette in pericolo la vita, mentre quella femminile è più subdola e meno apertamente violenta, forse il modello maschile fondato sul dominio che poco spazio e libertà lascia all’altr* ha prevalso, anche su quello femminile, più orientato da sempre alla relazione, alla cura e al riconoscimento dell’altr*. Forse. Forse si stratta di una paura crescente nello stare in relazione: di perdere la sicurezza, la propria identità, il controllo, di restare soli. In un mondo che naviga nel caos e allo stesso tempo nei pochi centimetri di uno smartphone, avere la certezza del proprio microcosmo può diventare indispensabile.

 

L’urgenza di eradicare i sempre più frequenti femminicidi spinge a considerare la violenza dell’uomo sulla donna non l’unica ma la più pericolosa, eppure dividere il mondo in polarità contrapposte, in vittime e carnefici, modelli maschili e femminili, potrebbe sostenere un’identificazione con gli stessi più ingabbiante di quanto immaginiamo. Forse, come già è stato proposto, è la relazione il centro del nostro discorso più che il genere: lavorare sulla propria capacità di stare in relazione in modo sano, rispettoso di se e dell’altr* ed emotivamente consapevole, l’obiettivo. Perché è vero, come ci spiega il buon vecchio Freud, che l’uomo è anche aggressività e sopraffazione, ma non solo questo e in una relazione d’amore degna di questo nome la violenza non può essere contemplata. Per questo credo che anche parlare di amore malato o amore tossico sia deviante. Le parole hanno la capacità di definire la realtà.

Credo infine che di relazioni buone ne facciamo esperienza tutti i giorni come di uomini capaci non solo di stare nella relazione con una donna sostenendola e rispettandola ma anche di scompaginare quel modello maschile talmente imperante davanti ai nostri occhi da non farci scorgere il cambiamento che sta avvenendo, in una direzione anche positiva.

 

La mia vuole essere una riflessione che non pretende di essere esaustiva vista la complessità del fenomeno, ma vuole dare spunti e provare a collegare tra loro i vari punti di vista sul tema senza allontanarsi troppo dalla centralità dell’urgenza di una violenza a tratti incomprensibile.

 

Grazia Bandiera

Psicoterapeuta e Sessuologa